Portopalo, i disegni della sofferenza sui barconi della speranza

Portopalo, i disegni della sofferenza sui barconi della speranza

C’è un forte odore di frittura di pesce quando arriviamo al porto di Portopalo di Capo Passero. Sono da poco passate le 14.30 e dentro un ristorantino che si affaccia proprio sul molo si sta ancora consumando il rituale pranzo del primo dell’anno.

È una giornata fredda ma c’è il sole, si sta bene in questo suggestivo borgo marinaro all’estremo sud della Sicilia orientale. Parcheggiamo e la prima barchetta che mi salta subito all’occhio, tra le miriadi ormeggiate, è una di medie dimensioni, fatiscente e sommersa per metà: “Assomiglia a uno dei barconi con cui arrivano. Sai, quelli che si vedono in tv e nei giornali, una volta ho visto un documentario”.

Ci scambiamo qualche opinione a riguardo, potrebbe essere. Poi però l’insistente odore proveniente dal ristorante ci riporta alla realtà: non abbiamo ancora pranzato. Risaliamo in macchina per andare via e invece di fare inversione, per curiosità, proseguiamo verso la parte estrema del porto, giriamo a sinistra, ancora pochi metri e parcheggiamo nuovamente. “Lo sapevo” gli dico, con una specie di imprevedibile nodo in gola.

Davanti a noi, su delle rocce alte, in un angolo neanche tanto nascosto, una decina di barconi coloratissimi e semidistrutti. Alcuni non hanno più delle parti, su tutti delle scritte in arabo che vorrei tanto saper tradurre. Ho parlato tanto e a lungo con i ragazzi dei centri di accoglienza delle loro traversate su queste carrette del mare. E il nodo alla gola di prima si trasforma subito in morsa allo stomaco.

Iniziamo il nostro fortuito sopralluogo tra queste malridotte imbarcazioni. Non sappiamo neanche se ci è permesso stare lì. Per quasi tutto il tempo proseguiamo su due diversi percorsi, lui da una parte con la sua macchina fotografica, io da un’altra. Ogni tanto ci guardiamo da lontano. Se lui è piccolo in confronto a queste carcasse, io sembrerò minuscola.

Alcune di queste carrette del mare sono molto alte, lunghe diverse decine di metri, a occhio e croce una quarantina di persone potrebbero anche starci. Penso però che invece gli scafisti riescono a farcene entrare anche centinaia, nel più angusto spazio, in qualsiasi angolo, nella più soffocante stiva.

Il legno è marcio, lunghi e grossi chiodi arrugginiti escono fuori dalle travi e dalle assi spezzate, alcune sono quasi completamente bruciate, mentre cammino calpesto i resti carbonizzati. Guardo all’interno, dentro ad una si vede ancora del cibo in scatola, indumenti, giubbotti, plaid. Guardo di nuovo, dentro a tutte vedo ancora uomini, donne e bambini, le loro storie, le loro speranze di una vita migliore, i loro sogni, le loro urla di paura e disperazione. Penso a chi dopo aver viaggiato su questi vecchi barconi è riuscito a toccare terra, a chi non ce l’ha fatta ed è annegato e a chi su quelle prue e in quelle stive è morto.

Proseguo il mio percorso e inaspettatamente mi accorgo di qualcosa: sulla fiancata di una delle prime barche qualcuno ha disegnato delle braccia, delle mani protese verso quello che mi sembra essere il Big Ben di Londra che segna le tre in punto. Sembrano mani disperate, in cerca di aiuto. Un’altra barca, un altro disegno: dei ritratti, dei volti con il tratto tipico africano delle labbra carnose, uno non ha sguardo, un altro ha gli occhi scuri. Un terzo sembra osservarmi, un quarto urla. Un’altra mano si allunga verso il nulla dell’azzurro sbiadito delle travi colorate e rovinate.
Continuo a cercarne altri, famelica, mentre mi chiedo chi li abbia realizzati. Ne scorgo un altro, è lo schizzo di un ennesimo volto disperato con la solita mano protesa, in cerca di aiuto.

Infine l’ultimo, su una carretta per metà rossa. Quello che sono rimasta a osservare quasi impietrita e commossa, davanti al quale il tempo sembra essersi fermato: un uomo che con una mano tiene un’ arma e con l’altra tiene, forse, un timone. E tre figure, una che tenta di difendersi, una che pare urli per la disperazione, una che si copre il volto con le mani per non guardare o per asciugarsi le lacrime.

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Oggi di Portopalo di Capo Passero so che oltre a essere un gioiello della nostra terra è uno dei maggiori punti di frontiera dell’Europa, una sorta di trincea dove si susseguono gli sbarchi dei migranti proventi prima dall’Africa e, negli ultimi mesi, anche dalla Siria. So che quei fondali sono la tomba di oltre 283 persone, vittime di un “naufragio fantasma” avvenuto nel 1996 e volutamente trascurato per anni. Oggi so anche che al porto di Portopalo esiste un cimitero delle carrette del mare che, per legge considerate “rifiuti speciali”, attendono di essere smantellate e demolite, anche se alcune sembrano essere lì da anni.

Qui qualcuno ha lasciato un segno del suo passaggio mostrando attraverso pochi tratti neri una rara sensibilità e l’essenza di una sofferenza che noi difficilmente riusciremo mai a immaginare e comprendere. Noi queste piccole opere d’arte le abbiamo volute fotografare perché presto o tardi scompariranno e allora ho pensato che andavano in qualche modo conservate e mostrate.

Per il significato che assumono, per spingerci a riflettere, per farsi monito: gli sbarchi non si fermeranno e  nuove esauste carcasse di carrette finiranno in porti come quello di Portopalo, Pozzallo, Lampedusa a ricordarci che nel 2017, e chissà per quanto tempo ancora, la gente sarà costretta a fuggire dal proprio paese affrontando pene e supplizi disumani. Loro però, a differenza delle barche con cui arrivano sulle nostre coste non sono “rifiuti speciali”. A volte qualcuno sembra dimenticarlo.

Foto di Gianni Licitra – Tutti i diritti riservati ©

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